venerdì 12 ottobre 2018

Racconto d'autunno: Un giorno dopo l'altro



Ancora l'autunno, e per celebrarne i toni un po' malinconici, un breve racconto:

Un giorno dopo l'altro



Arrivai a un punto della mia carriera e della mia vita in cui nulla più aveva il potere di coinvolgermi. Le conferenze, gli autografi, le onorificenze, erano tutti specchietti che non attraevano più il famoso scrittore, il grande cantastorie dell'umanità disillusa. Al contrario, tutta quella gente e i loro sorrisi d'approvazione, gli applausi e i fiumi di elogi vuoti di contenuto, tutto questo era diventato il mio fardello quotidiano. Lo scrivere poi, il mio mestiere, serviva solo a farmi vedere quanto poco valesse la mia arte, acclamata e osannata solo dai guru televisivi e pressoché ignorata dalle vetrine a cui io aspiravo. I soldi, quelli ce ne erano tanti, ma cosa farsene, alla fine? 
 
Mi rinchiusi nella casa di campagna, con la scusa di un nuovo progetto.
Portai con me risme e risme di appunti per non mettere in allarme qualcuno dei più attenti tra coloro che mi circondavano, e mi preparai ad affrontare una tarda estate, e un autunno, e forse persino un inverno, in completa solitudine. Sarei bastato a me stesso, mi dissi, rigirando tra le mani un telefonino ormai scarico. 
 
Poi la notte iniziò, e io mi persi. Dimenticai la celebrità, il senso della mia vita, persino il mio nome. Mi gettai su un divano impolverato, chino a guardarmi le mani. Erano uscite parole, da queste dita, fogli e fogli di inutili parole, scritte solo per compiacere, mai per dar voce alla mia vera ispirazione. 
Mi addormentai, scivolando lentamente in un sonno disturbato. Mi risvegliai nel grigiore di una giornata senza scopo, e ancora una volta mi abbandonai al torpore, senza rendermi conto di cosa stesse succedendo. Certo, le ore e i giorni passati a piangere sulla pagina bianca avrebbero dovuto mettermi in allarme, avrei dovuto prenderlo come avvertimento, ma se anche avessi capito allora cosa mi stava aspettando, avrei agito diversamente?

Raccolsi in un canestro i manoscritti e i miei appunti e li gettai nel fuoco; radunai tutti i miei vecchi compagni a rapporto: libri, riviste, taccuini e numeri di telefono, e vi riempii un grande sacco. Lo trascinai per il bosco delle civette con la stessa serietà con cui si segue una processione funebre e lì lo abbandonai. Disseppellii dalla cantina ben fornita il migliore dei whisky e bevvi, fino a quando l’alcol non riuscì a sbiadire il sapore amaro che avevo in bocca. 
Di tanto in tanto qualche pensiero galleggiava lucido verso di me dagli abissi della mia coscienza stordita: una frase dalla melodia luminosa, un frammento di scritti lontani faticosamente cancellati dalla memoria. Allora io, con ferocia spietata, li ingurgitavo con lunghe sorsate di alcool e quelle parole calde che mi mostravano ancor più crudamente il mio fallimento si spegnevano lentamente, fino a tornare mute. 
Ero pronto, Dio solo sa se ero pronto a lasciarmi tutta quella miseria alle spalle. Dovevo trovare solo il mezzo, il momento giusto.

Poi, un giorno qualunque, qualcosa venne a bussare alla mia finestra. Un ticchettio anonimo mi impose di risorgere dal torpore. Socchiusi gli occhi impastati dai miei infiniti abbandoni e mi ritrovai a fissare inebetito il quadro della finestra: fuori, solo il grigio di una giornata autunnale. Richiusi le palpebre gonfie; la testa leggera e i crampi allo stomaco ricominciarono a fare da contrappunto alle mie amnesie. E ancora quel ticchettio timido e intermittente alla finestra.
Le mie gambe stanche e flaccide resistettero per un poco alla curiosità. Ma quando quel suono minuto si ripeté, la coscienza che ancora si ostinava a rimanermi aggrappata addosso mi chiese di tirarmi in piedi, andare, guardare, cercare.
Nulla.
Solo il boschetto delle civette, fosco e già in gran parte spoglio, a fissarmi lugubre. Ma mentre voltavo la testa pesante verso il divano dei miei oblii, il leggero richiamo si rinnovò. Non c'era nulla, mi dissi cercando di ignorarlo, ma ancora una volta si fece udire nitido, e ancora una. E allora ebbi la certezza che quel rumore non era casuale. Chiamava me, non potevo non dargli ascolto.
Mi voltai per l'ennesima volta e questa volta il mio ospite non si ritrasse al mio sguardo. Batteva piano sul vetro, la coda infoltita dall'inverno ormai alle porte e una zampetta sospesa, quasi fosse un mendicante alla mia porta. “Una nocina”, sembrava supplicare, “una nocina per me che tra breve dovrò addormentarmi per l'inverno”.
Come rifiutare una noce al poverello mendicante? 
 
Intorpidito da settimane di inerzia e di bevute, mi affannai goffamente a rovistare in ogni angolo della casa per trovare la noce: in cucina, in soffitta, in cantina. E quando infine la trovai e tornai dal mio piccolo ospite, lui era ancora lì, la zampetta protesa e gli occhietti neri eccitati. 
- Vieni a prenderla.
La piccola zampetta, dapprima titubante al gracchiare della finestra che si apriva, si allungò sempre più coraggiosa fino a trovare la noce. La tastò con accortezza, sfiorò la mia mano. E con uno strizzare di baffi e uno squittio sgraziato, il piccolo ospite ringraziò e mi augurò l'arrivederci.

Il giorno dopo, alla stessa ora, un tintinnio alla finestra mi destò da un sonno febbricitante. Quella notte ero stato tenuto sveglio non dall’angoscia dei miei fallimenti o dal torpore dell’alcool, ma dal pensiero di quella piccola zampetta protesa e dal suo lieve tocco che, come per incanto, era riuscito a scuotermi nel profondo.

Quando il mio piccolo ospite bussò ancora alla finestra, non mi feci trovare impreparato. Una manciata di noci lo aspettava nascosta nel cassetto del mio scrittoio.
- Ma una alla volta, - gli dissi, porgendogli la sua ricompensa. - Una al giorno, un giorno dopo l'altro.
Il piccolo amico afferrò la sua nocina, la annusò irrequieto e la portò alla bocca, mentre con la coda salutava me, rimasto immobile a guardarlo allontanarsi tra i rami più alti del boschetto delle civette.

 

2 commenti:

  1. E questo è il racconto per festeggiare l'autunno. Ora manca quello di Halloween :D

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