Ancora l'autunno, e per celebrarne i toni un po' malinconici, un breve racconto:
Un giorno dopo l'altro
Arrivai
a un punto della mia carriera e della mia vita in cui nulla più
aveva il potere di coinvolgermi. Le conferenze, gli autografi, le
onorificenze, erano tutti specchietti che non attraevano più il
famoso scrittore, il grande cantastorie dell'umanità disillusa. Al
contrario, tutta quella gente e i loro sorrisi d'approvazione, gli
applausi e i fiumi di elogi vuoti di contenuto, tutto questo
era diventato il mio fardello quotidiano. Lo scrivere poi, il mio
mestiere, serviva solo a farmi vedere quanto poco valesse la mia
arte, acclamata e osannata solo dai guru televisivi e pressoché
ignorata dalle vetrine a cui io aspiravo. I soldi, quelli ce ne erano
tanti, ma cosa farsene, alla fine?
Mi
rinchiusi nella casa di campagna, con la scusa di un nuovo progetto.
Portai con me risme e risme di appunti per non mettere in allarme
qualcuno dei più attenti tra coloro che mi circondavano, e mi
preparai ad affrontare una tarda estate, e un autunno, e forse persino
un inverno, in completa solitudine. Sarei bastato a me stesso, mi
dissi, rigirando tra le mani un telefonino ormai scarico.
Poi
la notte iniziò, e io mi persi. Dimenticai la celebrità, il senso
della mia vita, persino il mio nome. Mi gettai su un divano
impolverato, chino a guardarmi le mani. Erano uscite parole, da
queste dita, fogli e fogli di inutili parole, scritte solo per
compiacere, mai per dar voce alla mia vera ispirazione.
Mi
addormentai, scivolando lentamente in un sonno disturbato. Mi
risvegliai nel grigiore di una giornata senza scopo, e ancora una
volta mi abbandonai al torpore, senza rendermi conto di cosa stesse
succedendo. Certo, le ore e i giorni passati a piangere sulla pagina
bianca avrebbero dovuto mettermi in allarme, avrei dovuto prenderlo
come avvertimento, ma se anche avessi capito allora cosa mi stava
aspettando, avrei agito diversamente?
Raccolsi
in un canestro i manoscritti e i miei appunti e li gettai nel fuoco;
radunai tutti i miei vecchi compagni a rapporto: libri, riviste,
taccuini e numeri di telefono, e vi riempii un grande sacco. Lo
trascinai per il bosco delle civette con la stessa serietà con cui
si segue una processione funebre e lì
lo abbandonai. Disseppellii dalla cantina ben fornita il migliore dei
whisky e bevvi, fino a quando l’alcol non riuscì a sbiadire il
sapore amaro che avevo in bocca.
Di
tanto in tanto qualche pensiero galleggiava lucido verso di me dagli
abissi della mia coscienza stordita: una frase dalla melodia
luminosa, un frammento di scritti lontani faticosamente cancellati
dalla memoria. Allora io, con ferocia spietata, li ingurgitavo con
lunghe sorsate di alcool e quelle parole calde che mi mostravano
ancor più crudamente il mio fallimento si spegnevano lentamente, fino
a tornare mute.
Ero pronto, Dio solo sa se ero pronto a lasciarmi
tutta quella miseria alle spalle. Dovevo trovare solo il mezzo, il
momento giusto.
Poi,
un giorno qualunque, qualcosa venne a bussare alla mia finestra. Un
ticchettio anonimo mi impose di risorgere dal torpore. Socchiusi gli
occhi impastati dai miei infiniti abbandoni e mi ritrovai a fissare
inebetito il quadro della finestra: fuori, solo il grigio di una
giornata autunnale. Richiusi le palpebre gonfie; la testa leggera e i
crampi allo stomaco ricominciarono a fare da contrappunto alle mie
amnesie. E ancora quel ticchettio timido e intermittente alla
finestra.
Le
mie gambe stanche e flaccide resistettero per un poco alla curiosità.
Ma quando quel suono minuto si ripeté, la coscienza che ancora si
ostinava a rimanermi aggrappata addosso mi chiese di tirarmi in piedi,
andare, guardare, cercare.
Nulla.
Solo
il boschetto delle civette, fosco e già in gran parte spoglio, a
fissarmi lugubre. Ma mentre voltavo la testa pesante verso il divano
dei miei oblii, il leggero richiamo si rinnovò. Non c'era nulla, mi
dissi cercando di ignorarlo, ma ancora una volta si fece udire
nitido, e ancora una. E allora ebbi la certezza che quel rumore non
era casuale. Chiamava me, non potevo non dargli ascolto.
Mi
voltai per l'ennesima volta e questa volta il mio ospite non si
ritrasse al mio sguardo. Batteva piano sul vetro, la coda infoltita
dall'inverno ormai alle porte e una zampetta sospesa, quasi fosse un
mendicante alla mia porta. “Una nocina”, sembrava supplicare,
“una nocina per me che tra breve dovrò addormentarmi per
l'inverno”.
Come
rifiutare una noce al poverello mendicante?
Intorpidito
da settimane di inerzia e di bevute, mi affannai goffamente a
rovistare in ogni angolo della casa per trovare la noce: in cucina,
in soffitta, in cantina. E quando infine la trovai e tornai dal mio
piccolo ospite, lui era ancora lì,
la zampetta protesa e gli occhietti neri eccitati.
- Vieni
a prenderla.La piccola zampetta, dapprima titubante al gracchiare della finestra che si apriva, si allungò sempre più coraggiosa fino a trovare la noce. La tastò con accortezza, sfiorò la mia mano. E con uno strizzare di baffi e uno squittio sgraziato, il piccolo ospite ringraziò e mi augurò l'arrivederci.
Il
giorno dopo, alla stessa ora, un tintinnio alla finestra mi destò da
un sonno febbricitante. Quella notte ero stato tenuto sveglio non
dall’angoscia dei miei fallimenti o dal torpore dell’alcool, ma
dal pensiero di quella piccola zampetta protesa e dal suo lieve tocco
che, come per incanto, era riuscito a scuotermi nel profondo.
Quando
il mio piccolo ospite bussò ancora alla finestra, non mi feci
trovare impreparato. Una manciata di noci lo aspettava nascosta nel
cassetto del mio scrittoio.
- Ma
una alla volta, - gli dissi, porgendogli la sua ricompensa. - Una al
giorno, un giorno dopo l'altro.Il piccolo amico afferrò la sua nocina, la annusò irrequieto e la portò alla bocca, mentre con la coda salutava me, rimasto immobile a guardarlo allontanarsi tra i rami più alti del boschetto delle civette.
E questo è il racconto per festeggiare l'autunno. Ora manca quello di Halloween :D
RispondiEliminaAspetta, Halloween è ancora lontano! :D
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