venerdì 6 luglio 2018

Reading in Progress: La Storia di Elsa Morante

La violenza della Storia


Copertina de La Storia, edizione Gli Struzzi, Einaudi.
Si parlava, la scorsa volta, di Reading in Progress e de La Storia di Elsa Morante.
Ora, chi ha letto il romanzo sa che il volumone è, per l'appunto, un volumone. E anche se la lettura è piuttosto scorrevole, non nego che ci sono stati momenti in cui ho avuto dei dubbi sulle scelte stilistiche e narrative della scrittrice. 
Una di queste scelte riguarda il modo in cui la Morante affronta l'argomento della violenza.

Nel post scorso vi accennavo brevemente alla struttura del romanzo: ogni capitolo narra le vicende di un anno o pochi anni di guerra, analizzando le vicende sia dal punto di vista prettamente politico, sia dal punto di vista della storia personale dei protagonisti.
Dopo un'introduzione precisa e puntuale delle vicende che dagli ultimi anni dell'800 porteranno alla prima e poi alla seconda guerra mondiale, si parte dal 1942, in pieno regime fascista. Si raccontano i fatti di cronaca di quell'anno in stile manualistico, per poi partire con la storia vera e propria, quella che si svolge nel quartiere romano di San Lorenzo. I soldati tedeschi, ancora considerati "amici", passeggiano per le strade del quartiere e i cittadini diffidano di loro, ma non li temono ancora. Il clima generale, sebbene si sia in pieno conflitto, sembra di normalità: la guerra c'è, ma la sentiamo lontana, in sottofondo.

Passiamo poi al 1943, anno in cui la città viene bombardata, l'armistizio viene firmato e i tedeschi occupano Roma. La situazione si fa seria, ma i nostri protagonisti riescono ancora a cavarsela: hanno un gruzzoletto da parte, vengono ospitati con altri sfollati più o meno amichevoli in uno stanzone comune. La violenza, quella vera, o la disperazione che la guerra porta con sé, ancora non appare se non marginalmente.
In questo periodo, sono gli animali che soffrono: il cane Blitz che finisce sepolto sotto le macerie di San Lorenzo bombardata, la gatta Rossella, che dà alla luce un gattino per poi abbandonarlo quando capisce di non poterlo allattare perché troppo consunta dalla fame e che, alla fine, dopo un ritorno fugace, scomparire per sempre, probabilmente mangiata da qualcuno più svelto e affamato di lei.

Quando arriva il 1944, tutta la violenza della guerra e dell'occupazione nazista esplode come un pugno allo stomaco. I partigiani, una volta conoscenti dei protagonisti, cadono in guerra, per lo più in modi tragici, uno dopo l'altro. L'autrice si dimostra tuttavia magnanima nei confronti dei suoi personaggi e non li turba con i racconti crudi delle loro morti. Questi, i racconti dettagliati e dolorosi, non vengono tuttavia risparmiati a noi lettori ed è la voce narrante che, raccolta testimonianza da altri personaggi di prima linea, si fa carico del compito di narrarceli.

E poi la fame, quella vera, che induce persino la ligia maestrina a rubare per sfamare il figlio, una fame che annichilisce e toglie ogni speranza a ogni prospettiva futura.

In questo incremento di violenza e dolore, i tedeschi sono i demoni supremi. Di tanto in tanto anche loro diventano vittime. Eppure non raggiungono mai una dimensione umana, tanto che il lettore non riesce a provarne pietà. Il soldato tedesco finito dal partigiano ebreo a calci sul viso, coi suoi piccoli versi che a ogni colpo si affievoliscono un po' di più, è nudo dalla cintola in su, bianco e grosso. Ricorda quasi un maiale, più che un uomo.
Solo il giovane soldato tedesco padre del piccolo Useppe prende una consistenza più umana. L'autrice si dilunga a raccontarne le origini, il senso di solitudine e di smarrimento, quasi cercasse di  giustificarne in parte il delitto. Del resto è pur sempre il padre del piccolo protagonista, sebbene lo sia per caso e solo a causa del suo atto di violenza sulla povera maestrina di San Lorenzo. E per perdonargli in qualche modo il suo essere nazista, identità che nella logica del romanzo cozza profondamente con la sensibilità dei sentimenti quasi umani che il giovane tedesco sembra possedere, lo si elimina dopo tre giorni dalla data del concepimento del piccolo Useppe, abbattuto in volo con tutto un carico di soldati tedeschi diretti verso le coste libiche.

La cosa che mi ha lasciato un po' perplessa, tuttavia, non è questa ingenua spoliazione di umanità nei confronti dei personaggi che incarnano il "cattivo", quanto il modo in cui si affronta l'argomento della violenza sulle donne. E qui mi dibatto ancora tra un senso di riconoscenza verso l'autrice e una leggero moto di protesta. E adesso vi spiego il perché.

Le donne della Morante, così come succede purtroppo in tutte le guerre, sono vittime di violenze. Eppure lo stupro non viene descritto con lo stesso impatto evocativo con cui sono narrate le violenze sugli uomini. Le donne che lo subiscono vengono in qualche modo graziate dal sentire fino in fondo la pena fisica o psicologica dell'atto.
La maestra protagonista stuprata dal soldato tedesco vive l'atto di violenza in una sorta di smemorato attacco di epilessia. Non le rimane nulla dell'atto subito se non un vago ricordo e una gravidanza inattesa.
La ragazzetta quindicenne partigiana, trovata dai nazisti, viene costretta a bere vino e a sua volta subisce la violenza in uno stato di intossicazione tale da renderla quasi dimentica di cosa stia succedendo.
La ragazzina napoletana, abusata dai parenti, lascia fare come fosse una cosa normale, mentre, una volta arrivati gli americani, si dedica alla prostituzione, "come era naturale che fosse".

Da una parte, come accennavo, sono grata alla scrittrice di non aver infierito sulle sue protagoniste. Ci ha risparmiato una lettura crudele che a me non dà particolare piacere.
Dall'altra, rimane forse il sentimento che la violenza venga in qualche modo sminuita e che si lasci passare l'idea che per la donna lo stupro sia un'esperienza che non ferisce fino in fondo, quasi rimanesse superficiale.

Non sono proprio convinta che fosse quest'ultimo l'intento della Morante, eppure ho comunque l'impressione che questo non sia il modo migliore di raccontare la violenza della guerra sulle donne.
Non che io sia femminista, badate bene. Anzi, potrei dire che il femminismo, in tutte le sue salse, mi irrita profondamente, perché la maggior parte delle volte crea dei muri tra i due generi che non hanno ragione di esistere. Eppure, leggendo del destino di queste donne, sono rimasta perplessa.
A chi mi dirà che proprio questa scelta dell'autrice rende ancor meglio la tragicità dell'evento, io rispondo che mi sono interrogata su questo a lungo e con sincerità mi sono detta che su di me non ha scatenato nessun moto drammatico, producendo semplicemente una sorta di sollievo consolatorio.

Ma, ancora: se lo scopo è raccontare la Storia, che sia del popolo di Roma o dei protagonisti, c'è davvero bisogno di infiorettare con questi espedienti la tragicità del destino delle donne per non turbare troppo i lettori, soprattutto dopo aver parlato onestamente e senza veli delle torture e dei supplizi inferti agli uomini della stessa Storia?



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