Avrei voluto finire la lista di guerra (perché le mie letture di guerra finiscono qui, nell'ultimo anno al fronte per l'Italia), con un bel romanzo italiano.
Magari con Moravia e il suo Agostino. Non che il mio primo incontro con questo autore mi avesse, a suo tempo, particolarmente entusiasmato. Senza contare che il prezzo dell'ebook, sugli otto euro scarsi, non invoglia di certo a dargli una seconda possibilità.
Allora ho provato a direzionarmi su un qualcosa di più leggero, italiano allo stesso modo: Giorgio Scerbanenco, autore di numerosi gialli e in particolare di quelli dell'ispettore Jelling, ambientati in America, e quelli dell'ispettore tutto nostrano Duca Lamberti.
Ma poi, ancora una volta, il prezzo dell'ebook, pari a quello del suo collega Moravia, e, ancor di più, il fatto di essermi resa conto che in effetti il libro che avrei avuto intenzione di leggere non era del 1943, mi hanno fatto desistere dall'intenzione, senza tuttavia distogliermi da una riflessione di carattere abbastanza veniale e tuttavia, in un certo qual modo, significativa: possibile che la letteratura italiana in ebook - e sottolineo e book - debba costare il doppio della letteratura straniera in uguale formato e uscita nello stesso identico anno?
Come si sarà compreso, a quel punto mi sono diretta verso gli autori stranieri e il romanzo prescelto per il 1943 è divenuto un'opera scritta in lingua Yiddish: La famiglia Karnowski, di Israel Bashevis Singer, fratello del premio nobel del 1978 Isaac Merritt Singer.
Prima di tutto, un breve riassunto:
... il lettore potrà immergersi nel grandioso affresco familiare in cui si snoda, attraverso tre generazioni e tre paesi – Polonia, Germania e America –, la saga dei Karnowski. Che comincia con David, il capostipite, il quale all'alba del Novecento lascia lo shtetl polacco in cui è nato, ai suoi occhi emblema dell'oscurantismo, per dirigersi alla volta di Berlino, forte del suo tedesco impeccabile e ispirato dal principio secondo il quale bisogna «essere ebrei in casa e uomini in strada». Il figlio Georg, divenuto un apprezzato medico e sposato a una gentile, incarnerà il vertice del percorso di integrazione e ascesa sociale dei Karnowski – percorso che imboccherà però la fatale parabola discendente con il nipote: lacerato dal disprezzo di sé, Jegor, capovolgendo il razzismo nazista in cui è cresciuto, porterà alle estreme conseguenze, in una New York straniante e nemica, la contraddizione che innerva l'intera storia familiare. Con una sapiente orchestrazione che è insieme un crescendo e un inabissarsi, Singer non solo ci regala pagine d'inconsueta bellezza ma getta anche uno sguardo chiaroveggente sulla situazione degli ebrei nell'Europa dei suoi anni, rivelando quelle virtù profetiche che, quasi loro malgrado, solo i veri scrittori possiedono.
Da Adelphi
Inutile dire che, non essendo che una terza scelta, di dubbi sul grado di apprezzamento che avrei avuto del romanzo ne avevo più di uno.
Prima di tutto, perché non amo le saghe familiari. E poi perché si parla di ebrei e, per di più, ebrei nel periodo della Germania nazista. Credo di aver già accennato, da qualche parte, della mia diffidenza per i racconti di guerra che tendono a impietosire il lettore. Ebbene, i racconti di ebrei durante la guerra sono, in genere, quelli di cui più diffido, ed è semplice capire il perché.
Eppure, come quell'altra volta, anche in questa lettura ho trovato tutt'altro che un tentativo di commuovere il lettore con facili cliché. Al contrario, ho trovato una bellissima analisi sincera della comunità ebraica del Novenceto.
Come dice bene la sinossi qui sopra, tutto parte dal capostipite David che lascia l'ambiente rurale degli shtetl polacchi (piccoli villaggi abitati dalle comunità ebraiche) per trasferirsi a Berlino. E qui vale la pena raccontare in breve la storia degli ebrei o almeno di una parte di loro.
Fin dal XIV secolo gli ebrei Ashkenaziti popolavano piccoli villaggi rurali nei territori della Polonia, Bielorussia e Ucraina occidentale, mantenendo vive le antiche tradizioni e i tratti culturali delle origini. In epoche successive, gli ebrei Ashkenaziti si trasferirono nell'Europa settentrionale (dove incontrano altre comunità ebraiche già presenti) e iniziarono una "modernizzazione": abbracciarono l'Illuminismo e le teorie più progressiste e, in un certo senso, diventarono più laici. Questa nuova generazione colta si contrappose a quella tradizionalista che rimase negli shtetl dei territori slavi.La contrapposizione tra questi due modi di essere ebreo, insieme alla trasformazione nella vita particolare dei protagonisti, è il filo conduttore della storia delle tre generazioni dei Karnowski.
Il padre David fugge dal provincialismo della Polonia per cercare la vera cultura ebraica a Berlino, parla un tedesco perfetto, migliore degli stessi tedeschi, disprezza gli ebrei polacchi, entra nei circoli culturali più esclusivi e insegna al figlio ad essere ebreo tra le mura di casa e uomo per strada.
Georg, il figlio, vive il suo essere ebreo in modo superficiale. Durante la prima guerra mondiale viene arruolato nell'esercito e serve come medico sul fronte orientale come un qualsiasi tedesco, mentre gli ebrei russi scacciati dai loro paesi si rifugiano in Germania e vengono visti con sospetto dagli ebrei tedeschi.
"Sono diversi", pensano questi ultimi, "sono inferiori".
Georg non partecipa a questo disprezzo, lui è indifferente alla diatriba tra gli ebrei, forse perché non si sente realmente uno di loro. Prima di tutto si sente tedesco. Sposa una tedesca e mette alla luce la terza generazione dei Karnowski: Jegor.
Se Georg era l'uomo che non sente il peso della sua eredità etnica e culturale ebraica, Jegor rappresenta il totale rifiuto per essa. Lui non si sente ebreo, anzi, disprezza i suoi simili, primo tra tutti suo padre. Lui si sente tedesco e, ancor di più, nazista.
Lacerato dall'impossibilita di sradicare da sé il suo essere ebreo, questa sua identità odiata diventa causa del suo profondo senso d'inferiorità e di disprezzo per se stesso. Il rifiuto delle proprie radici e l'impossibilita di riconciliarsi con le sue origini sono alla base del conflitto esistenziale dell'ultima generazione dei Karnowski.
In molti hanno visto nel nipote Jegor il personaggio più riuscito di tutto il romanzo, con i suoi conflitti intimi dissezionati in modo sapiente. Ma lui è solo il frutto di una saga che non si riduce ad essere familiare, ma vuole essere la parabola di un popolo, quello ebraico, in cammino verso una terra che in verità non è un luogo fisico, ma un senso di appartenenza culturale.
A questo male esistenziale dell'ebreo, Isaac J. Singer vede una soluzione naturale: quella di non combattere contro le vie dei padri, ma abbracciarle e riscoprirle.
Senza entrare nei dettagli per non rovinare la lettura, se volessi descrivere in due parole l'arco narrativo del romanzo, riassumerei la storia con la parabola del figliol prodigo.
La narrazione ha molti altri spunti interessanti di riflessione: riferimenti culturali, storici, filosofici, psicanalitici (secondo la moda del periodo in cui è stato scritto), ma anche punti di vista diversi: non solo degli ebrei protagonisti della storia che guardano se stessi, ma anche quello dei gentili, i non ebrei, che da lontano mirano un mondo che loro non comprenderanno mai del tutto.
Insomma, una lettura che mi sento di consigliare davvero.
E adesso, prima o poi, dovrò per forza leggere anche l'altro Singer. Se il fratello meno noto è stato capace di creare La famiglia Karnowski, quello che ha vinto il nobel chissà di che cosa è stato capace!
Diciamo anche che certe storie oggi sono davvero abusate: sia al TG sia in editoria si parla spesso di quei temi, come se fossero le uniche stragi avvenute nel mondo e in quella guerra.
RispondiEliminaDarò un'occhiata al romanzo, per vedere se mi ispira.
Ah, anche tu allora sei scettico su un tipo di "certe storie"!
RispondiEliminaPensavo di essere l'unica farabutta a diffidarne...
:)