Gabriele D'Annunzio, Il piacere, 1889.
Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio, Narciso (1594-1596). |
Le Reading in Progress su Il piacere di D'Annunzio stanno volgendo al termine. Non negherò che un po' mi mancherà l'atmosfera decadente in cui il conte Sperelli si muove.
Ma è tempo di passare oltre ormai, anche se prima di farlo mi piacerebbe soffermarmi su un paio di aspetti che accomunano Il piacere ad un altro romanzo che abbiamo letto insieme solo qualche settimana fa: Il ritratto di Dorian Gray.
Tra le mie varie convinzioni errate c'era l'idea che Oscar Wilde avesse prodotto il suo Dorian Gray molto prima rispetto a Il piacere di D'Annunzio. Che volete, questo brutto pregiudizio che gli italiani arrivino sempre in ritardo rispetto agli altri è duro a morire. Perché invece, controllando le date, si vede che non solo sono contemporanei, ma che addirittura Il piacere (1889) è stato pubblicato un anno prima de Il ritratto di Dorian Gray (1890).
di Lord Byron, 1816. Ripreso da Wikipedia. |
Non mi soffermerò, adesso, sulla differenza tra la filosofia di Byron e quella di Huysmans, semplicemente perché non ci siamo ancora letti Huysmans. Sì, avete capito bene: non ci siamo ancora letti. Lo leggeremo insieme, ma non subito, non vi spaventate. : D
Huysman, 1878. Ripreso da Wikipedia. |
Ma la vera caratteristica che differenzia i due personaggi, secondo me, non sta negli eccessi dei due, quanto nella profondità con cui i due autori analizzano la loro psicologia.
Dorian Gray, a cospetto del conte Sperelli, sembra una sagoma di cartone con sopra appiccicati tanti Post it. E sui Post it, tanti brevi manifesti inneggianti all'estetismo. Sperelli, invece, appare vivisezionato, talmente ben compreso e analizzato in tutti i suoi segreti motivi che spesso si crede (forse a ragione o forse non proprio) che D'Annunzio si compiaccia dell'atteggiamento del suo eroe e lo esalti. Ecco, io non ci vedo tutta questa esaltazione. Lo so, sto dicendo proprio il contrario di quello che generazioni di critici ripetono da sempre, ma secondo me D'Annunzio non intendeva, in realtà, fare un monumento al decadentismo come filosofia di vita. Forse anche lui, come Sperelli, si sente attratto dalla scena, dalla figura dell'artista, ma quando guarda "tutta la miseria del Piacere", come la definisce lui nell'introduzione, non lo fa con lo sguardo di chi si appresta ad una esaltazione. Lui guarda quasi con tenerezza al suo conte, forse persino identificandosi con lui a tratti, ma anche criticando la sua condotta, biasimando la sua bassezza tra le righe. E la triste scena del finale (lui torna a casa dopo un'ultima visita alla casa vuota dell'amante partita, sale le scale dei suoi appartamenti seguendo i facchini che trasportano un armadio appartenuto all'amante in un silenzio religioso), che ricorda molto una processione funebre, non è di certo la scena trionfale che uno si aspetta da un inno al decadentismo.
Immagine da davidbroughton.net |
Che D'Annunzio amasse le belle cose, professasse l'elevazione della Vita a opera d'arte e dell'artista a creatore della sua stessa Vita, questo è scontato. Ma D'Annunzio non era uno sciocco, lui vede che un'esistenza decadente non dona la gloria che la Vita vera merita. Per questo, poi, la sua filosofia evolve fino al superuomo, fino a trasformare l'apatico Andrea Sperelli, incapace di imporsi ai suoi stessi impulsi e alle sue stesse menzogne, in un eroe, nell'uomo d'azione che impara a superare non tanto i limiti esterni, ma quelli che il suo stesso essere gli impone.
Sta di fatto che raramente si incontra un personaggio così ben analizzato psicologicamente. Ed è davvero un piacere seguire tutte le sue evoluzioni. Forse è per questo che ogni volta che ci penso, anche io provo un moto di tenerezza nei confronti dello spietato conte Sperelli, decadente libertino incallito.
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